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AUGURI

che, se servissero, ve ne invierei una quantità.
Posso però farvi leggere l’incipit del prossimo romanzo che arriverà in libreria. Non ha ancora un titolo ufficiale. Ne ha due provvisori:
DELITTI SENZA CASTIGO
oppure
LA  VERITÀ AMLETICA.
Il sottotitolo potrebbe essere:
Un Sarti Antonio di quando i cellulari servivano per trasferire i detenuti.
Ho finito di rileggerlo da qualche minuto e prima di inviarlo  all’editore via email (glielo avevo promesso prima di Natale) voglio offrirvene un sorso.
Spero lo gradirete.
Eccolo.

Il romanzo una volta pubblicato non lo si dovrebbe più modificare. Bello o brutto, com’è uscito dalla tipografia dovrebbe restare. Per l’eternità. Per l’eternità? Sì, se l’eternità esistesse.
            Sì, perché è il documento che testimonia la maturità o immaturità dell’autore.
            Sarebbe come se il buon Leonardo, trent’anni dopo aver dipinto la Gioconda, passasse dal Louvre, si fermasse dinanzi al suo dipinto, lo guardasse con occhio critico, prendesse fuori dalla saccoccia diluente, pennello e colori e si mettesse a modificare gli occhi di Monna Lisa. O il sorriso o la postura della stupende mani perché, così come sono,  non gli piacciono più.
            Ho finito di scrivere il romanzo, che avete fra le mani, in quel di Montombraro, il 4 ottobre 1998, domenica, giorno di San Francesco d’Assisi. O di San Petronio. Scegliete voi il santo che preferite.
            È ambientato in una città, Bologna, in un periodo vissuto pericolosamente, che poi chiamammo “anni dello stragismo”. Siamo nel 1992/94, cioè una vita fa, i protagonisti erano nati da molti anni e così tutto avrebbe dovuto restare.
            Oggi, 2019, prima di inviarlo all’editore me lo sono riletto e non ho resistito: sono intervenuto, a volte anche pesantemente.
            Non sono Leonardo e mi è permesso.
            Mi sono anche accorto che oggi, sempre 2019, Cirò risulta in provincia di Crotone e la sigla automobilistica sarebbe KR.
            Non ho mai incrociato un’auto italiana con una targa KR. E non sarò il solo. Se anche l’avessi incontrata, l’avrei scambiata per croata.
Nel 1998 avevo collocato Cirò in provincia di Catanzaro, sigla CZ. Chissà perché. Eppure sono abbastanza preciso.
            Ho lasciato Cirò in provincia di CZ. Chiedo scusa ai cirotani.            Mi pare che si chiamino così.
            Ho lasciato Cirò in provincia di CZ per non dispiacere all’ex bella di notte che aveva giurato a Sarti Antonio, sergente, di aver preso nota della targa…
            Insomma, leggerete.

 

QUANDO SARÀ IL GIORNO CHE DIFENDERETE ANCHE LA MIA LIBERTÀ DI STAMPA

Ci sono giornalisti che hanno strani concetti di libertà. A quello che ho capito (ma posso sbagliarmi) la libertà di stampa che costoro auspicano e difendono con manifestazioni, articoli, interviste, dirette Tv e radio, è di poter impunemente offendere il prossimo. Un prossimo che non ha le loro stesse idee, possibilità di manifestazione e comunicazione. E se l’offeso si ribella e usa il loro stesso linguaggio, scritto o orale, si mobilitano e gridano al colpo di stato.

“Mutande verdi di Virginia”, “la fatina e la menzogna”, “la Raggi è inseguita dall’ennesimo, miserabile segreto, custodito da quattro amici al bar”, “Romeo ha un legame privato, privatissimo con la Raggi”, “tesoretti segreti e ricatti”, “la vita agrodolce della Raggi … la sua storia ricorda l’epopea di Berlusconi con le Olgettine”, “al Campidoglio il piacere dell’omertà”…

Tutto per lei. E altro. Molto altro.
Ne viene fuori un ritratto di persona ignobile eppure eletta a una carica prestigiosa. Immaginate come la considereranno gli elettori che l’hanno votata e che leggono solo i giornali istituzionali. Cioè quelli che pubblicano esclusivamente la verità, come le frasi citate sopra.
Tutto a puttane.
Forse no, ma non per virtù dei denigratori. Per virtù di una sentenza.
Io non sono incline alle arrabbiature, ma mi sarei molto, molto arrabbiato se fossi stato oggetto di una campagna denigratoria senza un attimo di respiro.
Ha pianto alla sentenza, dicono. Minimo. Io sarei andato a trovare i responsabili  impunibili (in virtù della libertà di stampa) e, civilmente, intendiamoci, avrei cercato di chiarire che molto, quasi tutto ciò che avevano scritto era falso. E per capire, assieme a loro, il motivo di tanta acredine, che sarebbe come dire: asprezza, acidità, astio…
Allora, acredine non basta. Meglio usare il vocabolo ‘odio’: risoluta ostilità, che implica di solito un atteggiamento istintivo di condanna associato a rifiuto, ripugnanza verso qualcosa, oppure un costante desiderio di nuocere a qualcuno…
I vocabolari non guardano in faccia a nessuno.
Per il momento. Domani, chissà. Dicono che sia un altro giorno.

Arrivo alla mia libertà di stampa. Sono stato indagato… Meglio, un mio romanzo (Strage) è stato indagato ed è stato assolto per diritto dovere di cronaca. Assolto anche il sottoscritto per la sua libertà di pensiero ed espressione.
Correva l’anno 1990.
Un altro, Funerale dopo Ustica, non verrà mai più ristampato perché l’avvocato al quale l’editore l’ha fatto leggere, ha ritenuto di  dare il suo parere negativo. Anche se me l’hanno pagato come se l’avessero pubblicato.
Bella soddisfazione. Potrò leggerlo ogni volta che ne avrò voglia. In casa mia, di nascosto e che nessuno lo sappia.
Corre l’anno dell’oggi.
Così ho imparato che i miei romanzi non vengano letti da un editor, com’è sempre stato e sempre dovrebbe essere, ma da un avvocato.
Dov’è finito il diritto dovere di cronaca? E dove la mia libertà di espressione mediante la stampa?
Veramente viviamo tempi oscuri.
Sarebbero più chiari se gli esposti al Presidente della Repubblica, gli appelli alla solidarietà con i giornalisti a rischio libertà, le radunate (non sediziose, mi raccomando) con cartelli e bavagli alla bocca e tutto il resto dell’armamentario ritrovato solo ora (dov’erano quando cacciavano dalla Rai i giornalisti scomodi?)  riguardassero anche la mia libertà di stampa, di espressione e pensiero.
Avvertitemi, nel caso.

CONFESSO

che fino a questa mattina, domenica 2 settembre 2018, alle ore 9 e 36 minuti, cioè dal momento nel quale ho aperto il giornale, non sapevo chi fosse il signor Fedez né la signora Ferragni.
Me ne vergogno profondamente e merito il biasimo del prossimo, chiunque esso sia. Foss’anche l’onorevole Salvini.
Mi chiedo se valga la pena continuare a vivere. Se i mie lettori potranno perdonarmi, ora che conoscono l’abisso di ignoranza nel quale ho vissuto fino ad oggi.  Mi chiedo chi oserà, d’ora in avanti, farsi vedere in giro con un mio romanzo in mano.
Copritemi di ignominia, vi prego!
Non sarà  mai abbastanza la punizione che merito.

SE LE PAROLE HANNO UN SENSO

 

Ci siamo accorti, o avremmo dovuto, di come politica e cultura dei nostri giorni stiano modificando, sotto i nostri occhi, il significato delle parole.
È una vera e propria rivoluzione silenziosa che ci porterà in una società dove l’interpretazione dei suoni che formano un discorso, e cioè il senso dei dialoghi, sarà soggettivo e quindi impossibile da decifrare.
Di questa rivoluzione ho scritto da tempo nei miei percorsi narrativi.
Riporto qui sotto alcuni esempi.

Brano tratto dal testo teatrale Operagialla, 2003.
Credo che sia (o meglio, mi auguro che sia) il risultato della globalizzazione. Una parola odiosa inventata per giustificare ogni malefatta, ogni delitto che si consuma a danno dell’umanità.
Anche umanità è una parola che ha perduto il suo significato.
Quante volta ci hanno ripetuto: colpa della globalizzazione.
Perché?
Cos’è?
A che serve?
Domande alle quali nessuno risponde. O, se risponde, ci inganna.
Da Una questione di principio, 2001.
Non ci sono dubbi: come dicono da tutte le parti, noi viviamo l’era della comunicazione globale, dell’informazione globale. Di questi tempi tutto è globale, anche la guerra. Io comincio a pensare, invece, che viviamo l’era dell’incomunicazione.
Il computer mi sottolinea incomunicazione, ma io non lo ascolto più.
Dicevo: comincio a pensare che le parole abbiano un senso diverso per ognuno di noi. Io, per esempio, do un certo significato alla parola ‘guerra’. Per me ha un significato tremendo, sarà perché l’ho vissuta e la ricordo. Per me significa morte, stragi, distruzione, fame, miseria… Ammesso che queste parole abbiano il senso che io immagino.
Per molti giornalisti e politici la parola ‘guerra’ evidentemente significa altro perché ne parlano sorridendo, divertendosi a giocarci e subito dopo averne parlato, i giornalisti passano alle notizie sportive, alla pubblicità, e i politici, alla legge sul falso in bilancio.
L’informazione globale ci mostra le immagini della CNN, sapete, quei puntini luminosi su uno schermo azzurro, e ci racconta e si racconta, che sono razzi intelligenti di una guerra intelligente.
Per me ognuno di quei puntini luminosi significa gente che sta per morire, case che stanno per crollare e loro, i destinatari di quei puntini luminosi, non lo sanno ancora. Io lo so. Io so che quando quel puntino finirà la sua corsa, sarà la distruzione e nella distruzione io non ci vedo niente, ma proprio niente di intelligente.
Si parlano fra loro, gli uomini politici, e non si capiscono.
Arafat ordina ai suoi uomini di sospendere l’intifada e i suoi uomini capiscono che si deve continuare. Perez spiega a Sharon che ha incontrato Arafat e si è messo d’accordo per una tregua e Sharon ordina ai suoi carri armati di demolire le case dei palestinesi.
Bush dice che o si è con lui o si è contro di lui.
A proposito, chi ha un minimo di memoria dovrebbe ricordare “Con noi o contro di noi!”, “Dio è con noi” eccetera, eccetera.
Dunque Bush dice che o si è con lui o contro di lui, e io penso con terrore (è proprio il caso di usare questo termine) che se non sono con lui e non sono contro di lui, come posso sopravvivere?
Il papa legge ogni mattina accorati appelli al mondo con i quali invita gli stati alla pace, ma nessuno lo ascolta e i bombardamenti continuano e gli attentati non si fermano e il macello continua.
C’è poi un certo uomo politico italiano che parla, parla, promette, promette (e lo sentiamo e lo vediamo tutti dallo schermo globale televisivo) e crediamo di aver capito una cosa. Ma lui, il giorno dopo, ci rampogna perché non abbiamo capito niente e abbiamo travisato le sue parole. I casi sono due: o siamo ignoranti noi o…
Pensate al significato di libertà, pace, democrazia, terrorismo… Ognuno di noi dà a queste parole il senso che gli fa comodo per cui libertà e pace non sono quelle che conosco e vorrei io, ma sono diventate strette, in nome appunto, della libertà e della pace.
Be’, questo vuol proprio dire non capirsi perché il senso delle parole non è lo stesso per ognuno di noi. Mi fa venire in mente un periodo della mia giovinezza, quando una certa categoria di persone, a Bologna, aveva inventato e usava un linguaggio criptico comprensibile solo agli addetti ai lavori.
Le parole e i modi di dire erano nati nelle strade malfamate e in dialetto, ma i giovani perbene (cosa vorrà poi significare perbene?) della mia generazione, e io stesso, se n’erano impadroniti, le avevano trasformate in italiano e le usavano nei discorsi fra loro. Gli altri, i genitori, gli insegnanti, i grandi, insomma, ne erano esclusi. Un modo di protestare contro un mondo che non ci capiva e a sua volta tendeva a escluderci.

Brano tratto da Noi che gridammo al vento, Einaudi, 2016.
Sono ossessionato dalla verità e non dalla vendetta. Quante volte ti ho parlato di verità, Professore. Da annoiarti e annoiarmi. Forse lo faccio perché temo, nei lunghi anni di attesa, temo di aver capito che non c’è differenza fra verità e falsità.
Intendimi bene, Professore: non c’è differenza nel significato delle due parole. Il valore della verità è il suono di una parola. La verità non è un oggetto e non si può raccontare. Esiste. È un simbolo. E così io la invento per quelli che non si fermano ai suoni e vanno alla radice del bene e del male.
Lo sai, Professore: il tema della falsità lecita, lecita perché utile, risale a Platone. Esisteva ancora il desiderio. Nel nostro mondo non esiste più il desiderio. Tutto è disponibile, anche la verità. Se non lo fosse, diventerebbe un desiderio pericoloso. Ed ecco pronte per ognuno di noi tante verità fra le quali scegliere. E se non c’è, sei libero di costruirti la tua. Si chiama democrazia.

Brano tratto da Questionario Flores d’Arcais, 2016, per Micromega.
Per noi, oggi, guerra è solo una parola che sentiamo troppo spesso, ma non abbiamo la percezione esatta del suo significato.
Nel 1945 fame significava FAME. Niente, proprio niente da mangiare.
Guerra significava GUERRA! Massacri, distruzione, lutti, dolori non narrabili. E fame, ancora, e stragi…
Oggi si dice: ho fame, e si va a mangiare. Qualcosa si trova.
Si dice guerra e a cosa si pensa?
Una nobildonna con responsabilità istituzionali dichiara: “Pronti a inviare almeno 5.000 uomini”. Un altro, sempre con responsabilità istituzionali: “Pronti a combattere”.
Non conosciamo più il significato delle parole? O è incoscienza, irresponsabilità, presunzione? O l’antica ignoranza di sempre?
Quando arriveremo ad “armiamoci e partite”, sapremo di aver buttato nel cestino dei rifiuti settant’anni di cultura, di storia, di democrazia. Assieme alla Resistenza.