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HOMO SAPIENS?

di loriano macchiavelli

Verso l’alba di un giorno sfortunato, mi hanno svegliato tre rumori orribili, inconsueti per la mia casa al Termine di Montombraro, Appennino modenese. Il ronfare dei motori delle superfortezze volanti che, durante la guerra, venivano a bombardarci. Ma come? L’allarme non è suonato. Dopo, il secondo fragore, ha rafforzato l’idea del bombardamento: la stanza ha ballato e i mobili si sono mossi.
Non ero tornato nel passato, al 1944, ma la terra ha tremato come se fossero esplose nel suo ventre, e in contemporanea, tutte le bombe sganciate sulla nostra terra martoriata, dalle superfortezze volanti. Per liberarci dall’occupazione tedesca. Strano modo di liberarci.
La notte del 20 maggio, non erano bombe, ma il risultato è il medesimo: morti. Anni dopo, i morti sotto i bombardamenti li avrebbero chiamati danni collaterali. Come oggi. Gli operai crepati sotto capannoni con la consistenza della cartapesta e il peso dell’acciaio, sono danni collaterali di un’economia che non guarda in faccia a nessuno, perché “è meglio rischiare la vita che perdere il posto di lavoro”.
Oppure: “Il lavoro non si può fermare. Non si deve fermare. Se si ferma il lavoro è come morire”.
Io non ci credo. Posso?
La Costituzione prescrive, dispone, ordina: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”. Diritto al lavoro, non alla morte per il lavoro!

È una nuova religione per la quale si crede e ciecamente si va. Credere, obbedire, combattere. Non ci siamo ragazzi.
La terra trema, le case crollano, le fabbriche si sfaldano e muoiono le persone. Gli ideali sono finiti da un pezzo sotto le macerie di una democrazia che si fatica a riconoscere per democrazia. E i fogli della Costituzione, strappati, svolazzano nell’aria irrespirabile. Resta solo il lavoro. Non per tutti. Solo per chi non si lamenta e non ha rivendicazioni da avanzare.
Le autorità invocano l’ottimismo. I giornali seguono. L’ottimismo è il sale della vita e gli emiliani sono ottimisti, duri. Amano il lavoro. Quando ce l’hanno. Gli emiliani si risolleveranno.
E così sarà. Ma se avverrà solo per riavere un lavoro, non ci sarà speranza, perché, come ha scritto Roberto Roversi, “per la speranza occorre una passione che può nascere solo da una visione più grande che non schiaccia i deboli, gli umili, gli indifesi”.
Gli emiliani ricostruiranno. Ricostruiremo perché se non faremo presto a rimettere in funzione le fabbriche e a ricominciare la produzione… Adesso la chiamano filiera, forse per darle un senso di leggerezza. Se non faremo presto a rimettere in moto la filiera, gli stranieri ci ruberanno il pane. E c’è chi pensa di aver fatto l’Europa unita. Ma i nostri vicini sono lì, lupi in attesa della preda. Per molti è arrivata la manna. Dal sottosuolo, stavolta. I tempi sono cambiati e il cielo non ha più molto da dare.
Adesso so cos’era il terzo rumore che ho sentito chiaramente, alle 4 del mattino del 20 giugno. Le stesse risate della notte del terremoto a L’Aquila. Altri fabbricanti di illusioni si fregavano le mani e ridevano per gli utili che, dal nostro terremoto, sarebbero arrivati nelle loro banche.
Si chiama liberismo.
Poi, magari, per mostrare quanto sono dispiaciuti, faranno pure un’offerta in euro per la ricostruzione di qualche chiesa o torre medievale. Fa parte del libero mercato: i miei soldi li do a chi mi pare. Soprattutto, li do se mi pare.
C’è gente così nell’Europa unita. Spera nelle disgrazie della Grecia. Quando non le provocano, le disgrazie. Poi della Spagna, poi dell’Italia, poi, poi, poi…
“Dobbiamo far crescere l’economia”, si grida da ogni parte. È proprio perché l’economia è cresciuta troppo che siamo in crisi. Sarebbe ora di gridare: “Dobbiamo far crescere la cultura”. C’è qualcuno che se la sente?
Adesso lo sappiamo: la crisi economica è solo una delle tante sciagure che si sono abbattute sul nostro paese. A considerarla oggi, neppure la peggiore, visto che ce la siamo voluta. Le altre ce le regala la natura. E forse ci siamo volute pure queste.
L’Italia è diventata una terra di sfollati. Per tanti motivi: paesi scivolano a valle sull’onda delle frane; montagne si sgretolano sotto i colpi di mostruose trivelle che bucano, cavano, deviano acque, ammassano detriti dove prima c’erano boschi e cinghiali e caprioli; città distrutte dal terremoto; torrenti che qualche anno fa facevano ridere per la loro pochezza, si portano via case e case che chissà chi (sappiamo chi) ha costruito sul loro cammino. E i torrenti si riprendono ciò che gli apparteneva per destinazione naturale.
Ai bordi di tutte le sciagure, file di sfollati cercano un posto dove sopravvivere per qualche giorno o mese o anno. O per sempre. E quel posto non c’è. Dove troveremo un posto tranquillo?
L’Aquila è un posto tranquillo, una città morta. Ironia del destino. Non tanti giorni fa sono tornato a L’Aquila. Mi mancavano alcune pagine per finire il mio romanzo. Si svolge a L’Aquila e volevo respirare ancora l’aria di desolazione che sale dalle macerie, esce dagli androni dei palazzi puntellati, dalle strade deserte di gente e di storia.
Me ne sono andato da L’Aquila con la sensazione che quella città sarà la Pompei del Duemila. Sono passati due giorni e ho visto un’altra Pompei dei nostri giorni. Quella della bassa, quella a due passi da casa mia. Le possenti torri che hanno sfidato i secoli, miseramente crollate; antiche fortezze che nessun nemico aveva espugnato, un cumulo di macerie; le industrie, espressione della nostra modernità e presunzione, crollati come castelli di carte. Quelli che mio padre mi costruiva sul tavolo di cucina, la sera e alla luce della lumiera, e che un piccolo colpetto al piede del tavolo, faceva crollare fra le mie risate di bambino.
Mi resta la triste sensazione che tutto il nostro paese si stia avviando a essere la Pompei del Duemila. Non posso essere ottimista. Forse non sono emiliano. Forse neppure italiano.

Montombraro, 2 giugno 2012
Anniversario della Repubblica.

Articolo pubblicato su Left, settimanale allegato a “L’Unità” in edicola sabato 9 giugno 2012

L’equità della signora Fornero

Forse avrei dovuto citarla come ministro (o ministra?) e non come signora. È riduttivo, ma ho un certo ritegno a farlo. Dirò perché.
La signora Fornero ha chiarito le cose a me e, soprattutto, ai lavoratori. Che stanno così: per salvare dal default…
Non so neppure se sia scritto giusto. Lo scrivo in italico: per salvare dal fallimento la nostra economia, si dovrà estendere la possibilità di licenziamento ai dipendenti del settore pubblico che, in tal modo saranno equiparati ai dipendenti dei privati. Equità. Come se non esistesse già la possibilità di licenziare chiunque, quantunque e comunque. Sorvoliamo.
Se la soluzione è così semplice, estendiamo, estendiamo subito! Così facciamo stare tranquillo anche Obama.
È forse l’articolo 4 della nostra Costituzione che lo vieta?
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto.
L’unica soluzione che mi viene in mente, e che suggerisco alla signora Fornero, sarebbe una modifica all’articolo 4 che potrebbe essere così riscritto:
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto ad essere licenziati e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto.
Una cosetta da poco. Se si vuole, e proprio per non essere fraintesi, l’articolo potrebbe essere completato con:
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al licenziamento del maggior numero possibile di suoi simili.
Codicillo non indispensabile, ma utile per unire ancor più i cittadini in uno Stato che li capisca, che comprenda i loro bisogni e faccia di tutto per soddisfarli. Così facciamo stare ancor più tranquillo Obama.

Ho sempre pensato che si dovesse operare per equiparare i cittadini italiani (ma i lavoratori sono ancora cittadini italiani?) al livello più alto, non al più basso. Per cui, se i dipendenti di enti pubblici non si possono licenziare, ci si dovrebbe preoccupare di applicare la stessa tutela ai lavoratori che non hanno la fortuna di appartenere a enti pubblici.
Ci si dovrebbe preoccupare, ho scritto. Chi? Il governo, è chiaro, no?
Questa, nella mia ingenuità, pensavo fosse equità.
Non so se la signora Fornero l’ha detto veramente. L’ho letto sui giornali e io ai giornali ci credo. Quasi sempre, se no, perché leggerli?
A meno che la signora Fornero non sia stata aggredita dal virus contradictus, comune nel precedente governo. Fa pronunciare parole e poi fa giurare di non averle pronunciate.
Ecco perché ho qualche resistenza a chiamare la signora Fornero, ministro (o ministra?): perché ancora non ha proposto la modifica all’articolo 4 della nostra Costituzione zovirax price. E dal suo insediamento sono passati… Quanto? Sei mesi? Un anno?
Non lo ricordo più. Il conto è complicato dal fatto che tutto è esattamente come prima e non è ben chiaro quando, a rovinare il paese, i tecnici hanno sostituto i politici. Cosa la paghiamo a fare?
Per equità con il passato governo, propongo che si possano licenziare anche i ministri che non provvedono al bene comune. O che dicono e poi contraddicono.

Parola dal sen fuggita
poi richiamar non vale.
Non si trattien lo strale
quando dall’arco uscì.

Non è una citazione colta. E non so neppure se sia giusta. Il buon Parini l’ho studiato a scuola e ne sono passati di anni, quindi… Mi pareva bello citarlo, visto che era pure un abate.
Mi sento in un paese di matti. O sono io il matto?

loriano macchiavelli
5 giugno 2012

LA NOSTRA E LA LORO EQUITÀ.

Equità: nell’ultimo mese non c’è parola, in Italia, che sia stata tanto usata. Da tutti, in particolare dai rappresentanti del nuovo (nel senso di recente, perché di nuovo non ci ho trovato granché) governo. La manovra per salvare l’Italia dal baratro…
Altra parola abusata. Sarebbe bello se i nomi dei responsabili che hanno scavato la voragine dinanzi al cammino dell’Italia, cioè al nostrocammino, venissero pronunciati a voce alta, magari ogni sera durante il telegiornale, e scritti in lettere tutte maiuscole, non per rispetto, ma perché non ci fossero equivoci e dubbi sulle loro identità.

La manovra per salvare l’Italia dal baratro sarà equa. L’equità sarà il fondamento della nostra azione politica. Equità e sobrietà. Sobrietà ed equità. Equità, sobrietà e baratro.
Che bello! Ci ha conquistati tutti. Quasi tutti. L’esperienza, che è uno dei pochi regali del tempo, mi fa dubitare e ho dubitato. Soprattutto perché, se dobbiamo il baratro agli speculatori finanziari, con quale fiducia possiamo affidare il risanamento della finanza alla stessa categoria sociale che ha provocato il disastro? E continua a provocarlo giorno dopo giorno, spread dopo spread, bot dopo bot, speculazione dopo speculazione?
Che bello, abbiamo detto. Avete detto.

Ho letto i provvedimenti, impregnati di equità, tanto che non sappiamo più dove metterla tutta ‘st’equità, e mi si è ancor più radicata la convinzione che le parole hanno un loro significato particolare, e diverso, a seconda della categoria di persone che le pronuncia.
Se io dico equità, intendo equità e non c’è bisogno di altre spiegazioni o chiarimenti. Voi sapete cosa intendo e di cosa parlo. Per altri, diciamo per i politici, per i grandi e misteriosi trafficanti della finanza, per le banche, per i giornalisti… Per ognuno di costoro, e per altri, equità ha un diverso significato che voi neppure immaginate. Per ciò vi trovate dinanzi a decisioni prese nel nome di un’equità che non corrisponde alla vostra.
Come per accise… Volete mettere com’è più aggraziato accise di tasse. Potrebbe essere il nome di un passerotto. O di un fiore: ho raccolto un mazzo di accise. Rosse.
Come per accise, per escort, per precarietà (da non confondere con disoccupazione), per mobilità (idem).

Così, per non venire estromesso dal mondo dell’economia (che mi arrecherebbe un grande dispiacere, come potete immaginare), ma soprattutto dal mondo dei significati, poiché di significati io vivo, sono andato a cercare qua e là alcune definizioni di equità. Mi è piaciuta particolarmente la seguente:
EQUITÀ, giustizia non rigida, ma naturale, temperata cioè dall’umanità, qualche volta anche dall’indulgenza e dalla saggezza.
Allora, ho ragione io: l’equità che intendo io è l’equità equa. Sono loro che non sanno cos’è equità, e se non sanno cos’è equità, non possono sapere cosa siano umanità, indulgenza, saggezza che si accompagnano indissolubilmente a equità. E la cosa mi spaventa. Dovrebbe spaventarci tutti.
In realtà, io e voi sappiamo benissimo che loro sanno cos’è equità. Lo sanno e fingono e si attaccano a un’altra definizione, questa:
EQUITÀ, conforme alla giustizia, alla convenienza.
Adesso sì che funziona e la manovra proposta dal governo è perfettamente giustificata. Infatti essa è conforme alla giustizia, la loro, ed è conforme alla convenienza, sempre la loro.
Buon baratro a tutti.
A meno che… A meno che…
Fate un po’ voi i conti.

Quale futuro?

Foucault e la biopolitica.

Se mai un giorno ci decideremo a fare un bilancio delle nostre ultime due generazioni, dal dopoguerra ai giorni nostri, sarà un bilancio piuttosto deludente. Ci troveremo fra le mani la fotografia del fallimento degli ideali e della lotta nata dall’illusione di un cambiamento del mondo. E che si tratti di un fallimento lo dimostrano gli avvenimenti che stiamo vivendo: affidiamo il governo nelle mani dell’economia, di quell’economia che abbiamo tentato di modificare; di quell’economia che ha ridotto la nostra esistenza a una lotta per la sopravvivenza; di quell’economia che si è spartita e continua a spartirsi il mondo e le sue ricchezze.

Quale futuro ci stanno preparando i governi economici? Quelli da tempo installati in certe parti del mondo e quelli che, altrove, si vanno sostituendo ai governi cosiddetti politici e alle cosiddette dittature. Se l’analisi di Foucault

Il dispotismo è un governo economico, che tuttavia non è rinchiuso, circoscritto entro i suoi confini da nient’altro se non da una economia che ha esso stesso stabilito e che controlla totalmente.
(Da Nascita della biopolitica, Feltrinelli)

Se l’analisi, dicevo, fosse esatta, a noi resterebbe ben poco spazio per la fantasia e per i sogni poiché l’economia e il suo governo non prevedono fantasia e sogni fra le doti dell’uomo. Anzi, li considerano un danno che contrasta con i loro, e quindi nostri, interessi.

loriano

 

Funerale dopo Ustica

 Torna Funerale dopo Ustica.

Il pezzo che segue l’avevo messo sul sito quando l’editore era convinto di ripubblicare il volume. Poi la malaugurata idea di farlo preventivamente leggere e commentare da un avvocato, a scanso di guai economici incombenti, dato l’argomento e il precedente legale con Strage. Risultato: Funerale dopo Ustica, non si ristampa.
Perché? Perché c’è il diritto all’oblio. Non so cosa voglia dire e non mi interessa.
Perché la sentenza definitiva sulla strage di piazza della Loggia ha assolto tutti gli imputati. Qualcuno ricorda Brescia, il 28 maggio 1974? La fotografia di un uomo in ginocchio, disperato come dovrebbe essere disperato tutto il nostro paese? Ne dubito, ma non cambieranno le cose.
Altri perché, tanti, che mi fanno capire come il nostro Paese stia tornando indietro nella democrazia, nella cultura, nel buonsenso… Se si arriva a censurare la letteratura, vuol dire che va male, che molte, troppe cose non funzionano, ma soprattutto che è in corso una mutazione genetica della nostra gente. Una mutazione che ci fa accettare anche gli avvenimenti per i quali, un tempo (quando?) avremmo protestato, saremmo scesi in piazza.
Niente di buono sul nostro orizzonte.
Anche se non ha senso, lascio il brano che annunciava la ristampa di Funerale dopo Ustica. A futura memoria. Leggetelo qui di seguito.

 

In giugno del prossimo 2012 uscirà per Einaudi una nuova edizione del mio romanzo Funerale dopo Ustica, apparso per la prima volta nel 1989 per l’editore Rizzoli. Allora l’autore indicato sulla copertina era un certo Jules Quicher, contrabbandato nel risvolto di copertina come “un esperto di problemi della sicurezza in una famosa multinazionale svizzera”. La presentazione del presunto autore terminava così:
“… Jules Quicher parla e scrive alla perfezione in italiano e francese (sue lingue madri), e in inglese, tedesco e spagnolo.”
In realtà il vero autore del romanzo, il sottoscritto, parla e scrive a malapena in italiano e nel dialetto della sua montagna, ma i progetti editoriali prevedevano che io conoscessi altre lingue.
La fascietta attorno al volume riportava: “Uno scrittore che sa molte cose: forse troppe”.  Anche questa affermazione era ardita: chi può conoscere le segrete cose avvenute in Italia dal dopoguerra ai giorni nostri?
Quello che sapevo dei misteri italiani lo avevo desunto dalle inchieste rese pubbliche e che ben pochi perdono tempo a leggere. Per ciò, chi ne sa anche solo un poco più degli altri, sembra che sappia quasi tutto.

Del romanzo Funerale dopo Ustica vi do, cari amici lettori, i

Personaggi
importanti in ordine di apparizione sulla scena del crimine:
Dikte, ammiraglio, funzionario ad altissimo livello dei servizi segreti della Difesa;
Bellamia, la doppia moglie dell’onorevole;
– L’onorevole Furoni, ex comandante partigiano, ex aderente al Partito d’azione, ex attivista del Partito comunista italiano, ex terrorista altoatesino e infine deputato al Parlamento italiano per conto di un partito dell’arco costituzionale e difensore delle riforme sociali e politiche;
– Surprisi, alto magistrato titolare di inchieste sull’eversione nera, rossa, gialla e altri variegati colori;
– Penelope Giorgiani, Lope, intellettuale, sociologa di fama internazionale e strenua paladina dei movimenti extraparlamentari come supporto insostituibile della democrazia;
Klaus Krunter o Walther Renner o Hisard o Gustav Göristh o Standish Husky o chissà che altro ancora, tedesco o austriaco o spagnolo o svizzero o chissà che;
– Guendalina Valmoral, Lina, la sua segretaria. O la sua donna? Vedremo;
– Victorhugo, ognuno di noi immagini chi sia e chi rappresenti;
– Pierluigi, nome di battaglia di uno sfigato condannato fin dalla nascita a morire giovane;
– Stefano Degiorgi, geometra, capo ufficio tecnico dell’impresa di costruzioni Sassi L, sui trenta, elegante e sobrio;
– Il Maggiore, ingegnere responsabile della stessa impresa, capelli bianchi, sorriso aperto e comunicativo;
– la Signorina, segretaria tuttofare della stessa impresa di costruzioni;
– Mila Santini, dottoressa, ufficio amministrativo dell’impresa Sassi L.;
– il Vecio, partigiano, un taciturno montanaro sui cinquanta;
– Mario, non si sa chi sia né se sia;
– dottor Capucci, funzionario di polizia;
– dottor Lucio Chiaroni, anonimo ragioniere dipendente di un’importante azienda a capitali internazionali, con scarse possibilità di carriera (almeno apparenti) e felice padre di famiglia;
– Marta, la moglie;
– Sara, la figlia, tutta suo padre;
– Ummer, il capo del Nucleo Sette;
– Primo, Secondo, la Ragazza, Trovato, Sesto, il Custode, quelli del Nucleo Sette;
– Riccardo, biancheria intima e gran figlio di puttana;
– Antony Bozzolla, coordinatore del gruppo dei dieci del Css2;
– Luis Garcia Rodriguez, o anche Colonnello Stan, che ha costruito la sua casa in cima a Punta Falconera, Costa Brava, Spagna;
– Algucil, pittore, anarchico, rivoluzionario, reduce del ’68 parigino, amico di Luis Garcia;
– Pazienza, un prezioso occhio per Stefano Degiorgi, nel buio di Roma, vero nome Circeo Calterano;
– Hilario, amico d’antica data di Stefano Degiorgi, che dà l’idea di un barbiere più che di un agente dei servizi segreti spagnoli;
– l’Abate di Montserrat, abazia benedettina a quota 750;
– Pardo Bazan, chi è costui? O costei;
– Sarah, dagli amici chiamata Sherry per via che ne beve in quantità;
– Jules Quicher, dei servizi di sicurezza francesi, uno che avrà vita lunga;
– dottor Miland, responsabile di certi laboratori segreti per la ricerca di chissà cosa;
– l’uomo con la cicatrice, destinato a una brutta fine come tutti i cattivi;
– Morini, uno di Milano che dovrebbe saperla lunga sulle bierre;
– Eva Horvath, vedova ungherese, trasandata e forse ubriaca;
– Heléna, la sua dolce bambina, strumento inconscio di morte;
– Professor Cordellin, uno strano ma erudito e aggiornato fisico;
– Adin al Fadal, pilota libico che riesce a guidare un Mig 23 perfino da morto;
– monsieur Pipard, titolare della brasserie di Punta Falconera e fornitore di gas liquido;- madame Feisan, da poco vedova e tenutaria dell’unico albergo di Punta Falconera;
– Ferdinando, un meccanico addetto al controllo a terra degli aerei, che si è provvidenzialmente rotto una gamba, purtroppo per qualcuno.

Adesso che vi ho presentato quasi tutti i protagonisti di Funerale dopo Ustica, ci vediamo a giugno.

PS. Per motivi esclusivamente legali, nel senso che stiamo valutando alcune ipotesi che potrebbero procurare a me e all’editore qualche fastidio, oggi (9 agosto 2012) vi comunico che l’uscita del romanzo è stata rimandata. Ne riparleremo, forse, a marzo dell’anno prossimo. Tenete duro.

loriano macchiavelli