Due giorni fa è stato il mio compleanno e avevo deciso di fare un omaggio alla città che mi ha accolto, in anni tristi e pericolosi e mi ha dato quello che ho. Il tempo mi sta passando sopra con una velocità che non vorrei. lo faccio oggi, quell’omaggio. Qui sotto i miei 27 lettori troveranno l’inizio del romanzo che sto scrivendo.
macchia
Non è mai stata una città: è stata tante città. Quella popolana dei portici di santa Caterina. Dell’acciottolato e della fontana di Ca’ selvatica e delle biciclette con una carta da gioco attaccata alla forcella posteriore per imitare il rumore di una moto, con risultati ridicoli. Dei calci a una palla di stracci in piazzetta san Nicolò.
È stata anche quella che metteva soggezione (o timore) nel cuore dei più piccoli, per i suoi orbi seduti su uno sgabello sgangherato all’ingresso delle chiese, a scuotere la ciotola di metallo con dentro le scarse monetine di rame rimediate in una mattina spesa a girar la manovella della ghironda, o viola da orbo, come la chiamavano loro, gli orbi. Sbattevano l’una contro l’altra, le monetine con sopra incisa la facciotta inespressiva di un Vittorietto qualunque, re per caso e non per volontà di Dio e tanto meno del popolo. Ogni tanto finiva il suono delle monete e cominciava la nenia ossessiva della ghironda.
È stata la città che ha accolto i profughi scappati dalla linea del fuoco, sulla gotica. Profughi: si chiamavano così. Oggi sono rifugiati politici o scampati da una delle tante guerre sparse per il mondo.
È la città dei bombardamenti alleati, delle macerie e degli ammazzati lasciati per le strade perché chi doveva sapere, sapesse. Dei repubblichini in giro sotto i portici, il ghigno cattivo, mitra a tracolla e bombe a mano col manico di legno infilato nella cintura.
Poi, finalmente, quella della Liberazione e della ricostruzione; del sindaco Dozza e del professor Dossetti che, in seguito, lasciata la politica, è diventato don per fondare la scuola di pace in quel Monte Sole bagnato dal sangue degli innocenti massacrati dai nazisti e dai fascisti.
Ancora: città di una cultura, per poca che fosse, strappata ai libri rubati fra le macerie di palazzi massacrati dalle bombe aeree; degli intonaci su muri scrostati dalla schegge, alcune insanguinate. Del Teatro di Massa, del festival della prosa, del Gruppo Teatrale Viaggiante, della Comune di Dario Fo.
Festival del jazz… e tutti alla stazione a salutare Louis Armstrong di passaggio a Bologna. Hengel Gualdi e la sua banda lo avevano accolto al suono di When the Saints .go marching in.
La Bologna della maturità.
Maturità?
Quella, per capirci, che considerava persona sgradita all’Amministrazione chi era fuori dal coro. Che non permetteva di leggere, in piazza Maggiore, sotto le fotografie dei caduti per la Resistenza, brani dai libri preferiti.
Ricordi, Pino? Ricordi Paco Taibo II? Ricordi Merola? C’eri anche tu, allora non sindaco, con noi a leggere. Correva l’anno di Bologna città europea della cultura e la sinistra aveva appena dato l’addio al municipio tenuto dalla fine della seconda guerra mondiale.
Poi c’è stato l’anno del distacco dalla città. Per cercarne un’altra.
Trovata nei sotterranei, quando ancora erano pochi a sapere della loro esistenza e non c’erano visite guidate nell’Aposa. Questa appartiene alle storie di Sarti Antonio, sergente.
Oggi c’è la Bologna sconosciuta che vive e dorme a metà aprile di un aprile che se vi dicessero che siamo ad agosto, ci credereste.
Per onestà devo ammettere che non è mai stata una città fresca d’estate e calda d’inverno. Da alcuni anni a ‘sta parte i due estremi si sono notevolmente alzati. Il freddo dell’inverno, che non prevede ormai più neve, ma gelo e ancora gelo alto cinque centimetri sull’asfalto. Non se ne va neppure se ci vuoti sopra un sacco di sale. Per ciò hanno smesso di provarci. Col sale.
Il caldo dell’estate è diventato insopportabile per i residenti. Insopportabile anche per i neri, abituati a ben altro nel paese d’origine, e cascati qui da noi per caso e dopo chissà quale moderna odissea. E quante.